La sentenza Kerem Çiftçi c. Turchia: la Corte europea per i diritti dell’uomo ritorna sul diritto alla libertà e alla sicurezza

Approfondimento n. 12/2021                                      

Lo scorso 21 settembre 2021 la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata sul caso Kerem Çiftçi c. Turchia(ricorso n. 35205/09), relativo alla violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza contenuto nell’art. 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e al diritto alla riparazione da ingiusta detenzione di cui all’art. 5 §5 della stessa.

Il ricorrente, Kerem Çiftçi, è un cittadino turco nato nel 1970 e residente a Batman, nella regione dell’Anatolia del Sud Orientale (Turchia). Il caso riguardava un mandato d’arresto contro il ricorrente nell’ambito di un’indagine sul Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK, ovvero una organizzazione armata) e la sua detenzione nella locale stazione di polizia. In particolare, il ricorrente veniva arrestato e detenuto per sospetta affiliazione all’organizzazione del PKK, e accusato di aver attaccato le forze di sicurezza turche con pietre, bastoni e bombe Molotov e di aver causato danni alla proprietà pubblica e privata. Veniva stato così emesso, il 4 aprile 2006, da parte della procura di Batman, un mandato d’arresto, revocato poi il 26 dicembre dello stesso anno in seguito al ricorso del sig. Çiftçi presso la Corte d’Assise di Diyarbakir. Con notevole ritardo però, la decisione che imponeva il ritiro del mandato d’arresto veniva ricevuta solo il 24 gennaio 2007 dal Procuratore Capo di Diyarbakır. In quello stesso giorno alle 11.50, il ricorrente, avendo appreso di essere ricercato dalla polizia e non essendo a conoscenza del ritiro del mandato, si consegnava alla stazione di polizia di Batman in presenza del suo avvocato in conformità con il mandato di arresto e veniva sottoposto a custodia. Veniva poi deferito alla procura di Batman, per poi essere rilasciato alle 13.25. Previo esaurimento dei ricorsi interni, il ricorrente decideva di presentare ricorso innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo per lamentare la violazione dell’articolo 5 della Convenzione e il suo diritto alla libertà e alla sicurezza e, ai sensi dell’articolo 5§5 della stessa la violazione del suo diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. 
Per contro lo Stato convenuto sosteneva come al ricorrente non potesse essere riconosciuto lo status di vittima in ragione della brevità della sua detenzione e che fosse inoltre impossibile quantificare una misura risarcitoria ai sensi della legislazione nazionale.

Ai fini dell’ammissibilità del ricorso, la Corte di Strasburgo ha osservato come il ricorrente sia stato in custodia cautelare presso la stazione di polizia per circa un’ora e mezza: non è contestabile quindi che egli sia stato privato della sua libertà seppur per un periodo di tempo limitato. In tali circostanze, la Corte ha così dovuto valutare se la detenzione del ricorrente nella stazione polizia, nonostante il ritiro del mandato d’arresto, potesse essere considerata legittima ai sensi dell’articolo 5 della Convenzione. Su questo punto, la Corte ha richiamato che la legittimità della detenzione del ricorrente era stata oggetto di un esame da parte della Corte d’Assise di Diyarbakir, nell’ambito del ricorso per risarcimento danni ai sensi dell’articolo 141 del Codice di procedura penale turco. A questo proposito, la Corte ha affermato come debba spettare in primo luogo alle autorità nazionali interpretare il diritto interno, in particolare le norme di natura procedurale. Tuttavia, poiché il mancato rispetto del diritto interno può comportare una violazione dell’articolo 5 § 1 della Convenzione, ne consegue che la Corte può valutare se il diritto interno sia stato rispettato o meno (v.  Toshev c. Bulgaria, ricorso n. 56308/00 e Shteyn c. Russia, ricorso n. 23691/06).

A tal proposito, la Corte d’Assise aveva respinto il ricorso del sig. Çiftçi sulla base del fatto che la durata del suo periodo in custodia della polizia potesse essere considerata ragionevole e appropriata tenendo conto del funzionamento del sistema inter-istituzionale turco e del “flusso naturale della vita”: in altre parole, secondo la Corte d’Assise, tale durata era ragionevole per la determinazione, da parte delle autorità competenti, della validità del mandato di arresto nei confronti del ricorrente.
Tuttavia, su questo punto, la Corte europea per i diritti dell’uomo ha sottolineato come nella valutazione della legittimità del ricorso interno la Corte d’Assise avesse preso in considerazione principalmente il tempo che il ricorrente aveva trascorso in custodia cautelare e non il periodo necessario per attuare la revoca del mandato d’arresto. La Corte d’Assise si sarebbe quindi limitata a sottolineare che il procuratore di Diyarbakır aveva ricevuto la decisione della Corte distrettuale che chiedeva la revoca del mandato d’arresto lo stesso giorno dell’arresto del ricorrente, e aveva notificato alle autorità competenti tale revoca lo stesso giorno in cui aveva ricevuto tale decisione.

Il ricorrente inoltre ha lamentato la violazione dell’articolo 5 § 5 della Convenzione, secondo il quale ogni persona vittima di un arresto o detenzione in violazione dei commi precedenti dell’art. 5 CEDU ha diritto ad una riparazione. 

La Corte ha così ribadito l’illegittimità della detenzione del ricorrente nella stazione di polizia ai sensi dell’articolo 5 § 1 della Convenzione e, di conseguenza, la violazione dell’articolo 5 § 5 della stessa. A questo proposito, la Corte ha osservato come, inoltre, il ricorrente avesse presentato una richiesta di risarcimento ai sensi dell’articolo 141 del Codice di procedura penale turco innanzi alla Corte d’Assise di Batman, ma che la richiesta veniva respinta in data 28 gennaio 2009. 

Un mese di ritardo per l’attuazione della decisione di revoca del mandato d’arresto è stato ritenuto un lasso di tempo irragionevole ed inaccettabile dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, posto che la Corte d’Assise di Diyarbakır ha impiegato 29 giorni per trasmettere al procuratore della stessa città la sua decisione di ritirare il mandato d’arresto. In aggiunta, la Corte di Strasburgo ha affermato che nei casi di privazione della libertà è necessario un approccio rigoroso nella verifica dei fatti. L’articolo 5 § 1 della Convenzione, infatti, richiede che qualsiasi tipo di detenzione debba essere “legittima”, rispetto alle norme sostanziali e procedurali interne e non arbitraria. Nel caso in questione, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riscontrato quindi la violazione dell’articolo 5 § 1 della CEDU in quanto la detenzione del ricorrente, anche se per un breve e limitato periodo di tempo e a prescindere dal fatto che il mandato d’arresto fosse stato revocato, era illegale.

La Corte ha infine rilevato che la legge dello Stato convenuto non prevedeva un diritto esigibile al risarcimento per la privazione illegale della libertà, e pertanto ha ritenuto in primo luogo che la decisione emessa dal giudice nazionale non contenesse una motivazione pertinente e sufficiente a riguardo e, di conseguenza, che vi fosse stata una violazione anche dell’articolo 5 § 5 CEDU e che il ricorrente avesse diritto ad un risarcimento di un valore di 11.000 lire turche.

A parere di chi scrive, l’importanza del caso Çiftçi è da interpretare in una duplice chiave di lettura: da un punto di vista giuridico e da un punto di vista politico. Per quanto concerne il primo aspetto, la sentenza della Corte prosegue sulla linea dei precedenti casi relativi alla privazione della libertà e della detenzione illegittima di ricorrenti a causa di negligenze di tipo amministrativo, quali la mancata pronta trasmissione di documenti tra autorità dello Stato (v. Velinov c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia n. 16880/08; v. Oprea c. Romania, n. 26765/05, in cui il ricorrente è stato detenuto sulla base di un mandato di arresto, che era stato revocato più di due mesi prima del suo effettivo arresto).
Da un punto di vista politico, la Corte si è posta come garante dei diritti umani all’interno di un conflitto particolarmente caldo e ben lontano da una risoluzione pacifica: quello tra il governo turco e il PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Il caso Çiftçi, infatti, è solo l’ultimo pezzo di un domino di una guerra ultra decennale, in cui l’apice è rappresentato dall’arresto del leader del Partito curdo, Abdullah Öcalan, la cui detenzione ancora oggi muove numerosi militanti dell’organizzazione, e dalla sua condanna a morte del 29 giugno del 1999, poi commutata ad ergastolo dalla Corte di Sicurezza dello Stato di Ankara il 3 ottobre 2002 su pressione della Corte di Strasburgo. Quest’ultima, infatti, il 30 novembre 1999, in applicazione dell’articolo 39 del Regolamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha richiesto alle autorità turche “di adottare tutte le misure necessarie perché la pena capitale non venisse eseguita affinché la Corte possa proseguire efficacemente l’esame della ricevibilità e del merito delle doglianze che il ricorrente formula sul terreno della Convenzione”. Nell’ottobre del 2001, l’articolo della Costituzione turca relativo alla pena di morte (38) è stato emendato, con l’abolizione della pena di morte tranne in tempo di guerra o per gli atti di terrorismo.

La negazione dei diritti fondamentali non è certo un fatto nuovo per la Turchia che spesso interpreta in maniera molto rigida le norme presenti nella propria Costituzione. Inoltre, la vicenda Öcalan è importante perché costituisce un banco di prova per i rapporti diplomatici tra la Turchia e l’Unione Europea: l’iniziale sentenza di pena di morte ha costituito un motivo di ripensamento sui valori fondanti di questo Paese e sui negoziati per l’ingresso nell’Unione. Sebbene la Turchia non sia mai stata in prima linea per la difesa di tali diritti, negli ultimi anni si è verificato un significativo arretramento, in particolare per quanto riguarda la parità di genere, la libertà di espressione e di riunione, a seguito dell’adozione di una legislazione in materia di sicurezza interna che concede ampi poteri discrezionali alle forze dell’ordine e alle autorità giudiziarie e non altrettanto al Parlamento. In questo contesto, con la sentenza Çiftçi, la Corte di Strasburgo ribadisce il suo ruolo di vigilante e garante dei diritti umani nel panorama europeo e compie un ulteriore significativo passo in avanti per il rispetto dei diritti fondamentali in Turchia.

Alessandro Bellavista
Studente del Master in Tutela Internazionale dei diritti umani “Maria Rita Saulle”

Link e materiale utile:
 
1) European Court of Human Rights, case of Kerem Çiftçi v. Turkey, 21/9/21, Application no. 35205/09
2) Faina A., Chionna S., Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale, Zacchè F.,  Zirulia S., (a cura di), Osservatorio Corte EDU: Settembre 2021, 13/10/2021:
https://sistemapenale.it/it/scheda/osservatorio-corte-edu-settembre-2021-selezione-di-pronunce-rilevanti-per-il-sistema-penale?out=print
3) Yenisey F., Turkish Criminal Procedure Code, BETA, Istanbul, 2009:
https://sherloc.unodc.org/cld/uploads/res/document/tur/2005/turkish_criminal_procedure_code_html/2014_Criminal_Procedure_Code.pdf
4) European Court of Human Rights, case of Shteyn v. Russia, 18/9/2009, Application no. 23691/06 5) European Court of Human Rights, case of Toshev v. Bulgaria, 10/11/2006, Application no. 56308/00
6) European Court of Human Rights: case of Oprea v. Romania, 10/4/2014, Application no. 26765/05
7) European Court of Human Rights, case of Velinov v. the former Yugoslav Republic of Macedonia, 19/12/2013, Application no: 16880/08
8) Informazioni, dati e statistiche sul conflitto tra Turchia e PKK: 
https://www.crisisgroup.org/content/turkeys-pkk-conflict-visual-explainer
9) Diritto internazionale in civica, “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate. Il caso Öcalan vs Turchia”, Civica Scuola Interpreti e Traduttori Altiero Spinelli, 5/6/2017: 
https://dirittointernazionaleincivica.wordpress.com/2017/06/05/il-caso-ocalan-vs-turchia/
10) Buonomo G., “La Turchia in CEDU su Ocalan” in Diritto&Giustizia edizione online, 2000, anno I, n. 220: https://www.academia.edu/16308590/La_Turchia_in_CEDU_su_Ocalan
11) Regolamento CEDU:
https://www.echr.coe.int/Documents/Rules_Court_ITA.pdf
12) Fonti in italiano per la situazione curda:
http://www.retekurdistan.it/

Approfondimento n. 13/2021                                      

Il sistema sanitario italiano, basato sul modello Beveridge, è di tipo pubblico e lo Stato assieme alle Regioni sono tenuti a garantirne il funzionamento: è loro compito quello di organizzare il Servizio sanitario nazionale (SSN), istituito con la legge n. 833/1978 e il Servizio sanitario regionale, attraverso i principi dell’universalità dei destinatari e la globalità delle prestazioni. Ai sensi dell’art. 32 della Costituzione, il diritto fondamentale alla salute è garantito a tutti gli individui prima ancora che cittadini, per il bene del singolo e della collettività.

Nel corso degli anni il legislatore ha adottato diverse misure volte a tutelare tutte quelle categorie ritenute vulnerabili dalla comunità internazionale. In primo luogo, per tutti gli stranieri, essi soggiornino regolarmente o meno sul territorio italiano, gli artt. 34-36 del d.lgs 286/1998, altresì noto come Testo Unico sull’Immigrazione (di seguito TUI) garantiscono, seppur in via differenziata, cure per i residenti in Italia. Inoltre, la legge n. 47/2017 ha introdotto la piena assistenza sanitaria per i minori stranieri non accompagnati. Un’altra disposizione da menzionare è il decreto-legge n. 113/2018, convertito dalla legge n. 132/2018, che determina le situazioni in cui la malattia può giustificare la permanenza dello straniero in Italia e rendere inefficace un decreto di espulsione dal territorio.

 Il TUI stabilisce che tutti coloro che soggiornano e lavorano regolarmente sul territorio nazionale, godono, assieme ai loro familiari, del diritto alla parità di trattamento e alla piena uguaglianza di diritti e doveri dei cittadini italiani. Inoltre, devono essere iscritti nelle liste del Servizio sanitario nazionale. È fondamentale precisare che l’iscrizione nelle liste del SSN. costituisce un obbligo per lo straniero ed è da tale obbligo che derivano i diritti all’assistenza sanitaria e la parità di condizione ai cittadini italiani e dei paesi membri dell’Unione Europea. Se lo straniero è regolarmente soggiornante, ma non svolge attività lavorativa, come nel caso degli studenti o dei turisti, l’iscrizione al S.S.N. è facoltativa e non obbligatoria ed in alternativa, è possibile stipulare polizze assicurative. Allo straniero non regolare, invece, sono garantite, nei presidi pubblici ed in quelli privati accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti ed essenziali, ancorché continuative, per malattie ed infortuni, e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva. 

L’orientamento giurisprudenziale segue la distinzione dettata dal TUI, a farne da esempio è la sentenza della Corte Costituzionale n. 252/2001, in cui è stato chiarito come anche il non cittadino, in quanto persona fisicamente residente sul territorio, possa beneficiare del “nucleo irriducibile” della tutela del diritto alla salute. Tale nucleo fondamentale comprende le prestazioni urgenti ed essenziali, di cui all’art. 35, c. 3 TUI. La Corte stabilisce come questa sfera di tutela non possa essere negoziabile, né possa cedere rispetto ad altri interessi legati al fenomeno migratorio, come motivi di ordine pubblico, controllo dei flussi e il contenimento della spesa pubblica. La Corte avalla dunque, la distinzione tra chi gode del solo nucleo essenziale del diritto alla salute e chi invece dispone di un’assistenza sanitaria di più ampia portata.

Ai sensi dell’art. 35 TUI quindi, i cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, possono ricevere una serie di cure dal carattere urgente ed essenziale tra cui:
-le vaccinazioni secondo la normativa e nell’ambito di interventi di campagne di prevenzione collettiva autorizzati dalle regioni;
-gli interventi di profilassi internazionale;
-la profilassi, la diagnosi e la cura delle malattie infettive ed eventuale bonifica dei relativi focolai.

Dall’inizio della diffusione della pandemia di COVID-19, di fatto, nel nostro Paese diverse categorie di soggetti vulnerabili non sono riuscite ad accedere ai trattamenti sopracitati. Gli stranieri presenti in Italia hanno subìto ritardi nelle diagnosi della contrazione del virus e in alcuni casi, in merito alla vaccinazione e all’accesso alle cure anti-COVID, secondo quanto riportato dalla Società Italiana di Medicina delle Migrazioni in un dossier di maggio 2021, restano ancora esclusi 200.000 stranieri in attesa di regolarizzazione; 80.000 immigrati accolti in strutture d’accoglienza; 5.000 minori stranieri non accompagnati; 160.000 rom, sinti e caminanti, che hanno la cittadinanza italiana ma sono residenti in campi e non sono iscritti al Servizio sanitario nazionale; 50.000 italiani e stranieri senzatetto; 5.000 italiani e stranieri residenti in insediamenti informali e palazzi occupati. In generale quindi, in Italia vi sono ancora tra le 500.000 e le 700.000 persone che si trovano sprovviste della documentazione necessaria (permesso di soggiorno, carta di identità, codice fiscale e/o tessera sanitaria) per ottenere i trattamenti sanitari per la prevenzione e la cura del Covid-19.

Da un punto di vista giuridico, questo caso rappresenta un vulnus per i principi di equità, generalità ed universalità per la tutela della salute e l’accesso ai servizi sanitari; da un punto di vista epidemiologico, si parla di una categoria numerosa e pericolosa per la diffusione del contagio e, da un punto di vista amministrativo, si tratta di veri e propri invisibili della società che, per una pluralità di fattori, non hanno diritto alla tessera sanitaria o ad un medico di base. Nei mesi successivi alla diffusione del report della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, in concerto con il Tavolo di Immigrazione e Salute, alcune Regioni hanno deciso di organizzare dei programmi vaccinali specifici nei confronti degli stranieri irregolari anche grazie alla mobilitazione da parte della società civile.

In aggiunta, va preso in considerazione il fattore politico-istituzionale che vede la “tutela della salute” una materia concorrente tra Stato e Regioni, in virtù del novellato art. 117 Cost. La competenza dell’assistenza sanitaria degli stranieri irregolari è rimasta in un limbo tra i poteri statali e regionali e nel frattempo, a seconda dei governi e del loro colore politico, sono state prese decisioni inclusive o esclusive, causando un vero e proprio conflitto in materia di prestazioni sociali. Quella che all’origine doveva essere complementarietà tra Stato e Regioni è così sfociata in una deriva regionalista, con ben 21 sistemi sanitari differenti, dove l’accesso a servizi e prestazioni è diversificato ed iniquo e dipendente da fattori governativi, economici e sociali. 

Anche alla luce dell’Accordo Stato-Regioni del 20 dicembre 2012, si pone quindi necessaria una armonizzazione dei vari Sistemi Sanitari Regionali in relazione, ad esempio, alle competenze statali esclusive in materia di immigrazione e quelle concorrenti in materia di tutela della salute. 

Alcune ipotesi potrebbero essere, ad esempio, inserire le figure dei mediatori culturali all’interno delle strutture ospedaliere, oltre che la semplificazione delle procedure burocratiche e dell’organizzazione dei servizi e la promozione di strumenti amministrativi che possano garantire la tutela della salute degli stranieri: ne è un efficace esempio il tesserino STP (Straniero Temporaneamente Presente). Si tratta di una misura alternativa adottata ormai da diverse regioni italiane che permette, a chi è sprovvisto di permesso di soggiorno, di avere accesso alle principali cure, anche continuative. Tale tesserino ha una durata complessiva di 6 mesi, è rinnovabile e permette di ricevere assistenza sanitaria di base, di essere ricoverati per urgenze e con day hospital e di ricevere cure ambulatoriali e ospedaliere, urgenti o comunque essenziali, anche se continuative, per malattie o infortunio.

Appare quanto mai necessario, in conclusione, non solo ai fini della limitazione del contagio da pandemia per COVID-19, rafforzare in termini giuridici, tecnici, pratici ed operativi la governance sanitaria nazionale e regionale ed il coordinamento verticale tra lo Stato, le regioni e gli enti locali, affinché nessuno, in particolar modo i soggetti maggiormente più vulnerabili della società, restino esclusi da cure e servizi sanitari, corollario del fondamentale diritto alla salute garantito dalla nostra Costituzione.
 

Alessandro Bellavista
Studente del Master in Tutela internazionale dei diritti umani “Maria Rita Saulle”
 

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