Ultime tendenze in materia di violenza sessuale nei conflitti secondo il Rapporto annuale del Segretario Generale delle Nazioni Unite
Approfondimento 2/2023
In occasione del quarto anniversario dell’adozione della Risoluzione 2467 (2019) in cui il Consiglio di Sicurezza definiva la violenza sessuale come “tattica di guerra e di terrorismo”, si è deciso di analizzare l’ultimo Rapporto in materia pubblicato nel marzo 2022 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres (Conflict-related sexual violence, Report of the Secretary-General, S/2022/272) in cui quest’ultimo riferisce sui progressi di attuazione delle risoluzioni 1820 (2008), 1888 (2009), 1960 (2010), 2106 (2013) e 2467 (2019), raccomandando azioni strategiche al riguardo.
Le risoluzioni di cui sopra costituiscono, insieme ad altre, a cominciare dalla Risoluzione “madre” 1325 (2000), l’Agenda internazionale “Donne, Pace e Sicurezza” delle Nazioni Unite, il cui obiettivo è promuovere una prospettiva di genere e una piena, paritaria e significativa partecipazione delle donne nei processi di peacemaking, prevenzione dei conflitti e peacebuilding. Nello specifico, questo gruppo di risoluzioni “tematiche” si concentra sulla prevenzione e la gestione della violenza sessuale legata ai conflitti, considerandola come un crimine prevenibile e punibile ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani e diritto penale internazionale.
Storicamente la violenza sessuale nei conflitti armati era considerata come un’inevitabile conseguenza del contesto bellico e fortemente ancorata all’idea della donna come bottino di guerra sulla quale poter esercitare un diritto di proprietà. La violenza sessuale costituisce una violazione dei diritti umani, compresi i diritti all’integrità fisica e all’autonomia sessuale, alla vita, alla salute fisica e mentale, alla sicurezza personale, alla libertà, all’uguaglianza all’interno della famiglia e davanti alla legge, indipendentemente dal genere e dall’identità di genere, al diritto di non essere discriminati.
Le prime tre Convenzioni di Ginevra non fanno alcun richiamo esplicito al divieto di stupro o altre forme di violenza sessuale nei conflitti, ad eccezione dell’articolo 3 comune alle Convenzioni, che potrebbe essere interpretato includendo la violenza sessuale come una violenza “contro la vita e la persona”. L’articolo 27.2 della Quarta Convenzione sancisce in maniera esplicita che «Women shall be especially protected against any attack on their honour, in particular against rape, enforced prostitution, or any form of indecent assault». Di pari rilevanza sono le disposizioni incluse nel I e II Protocollo Addizionale alle Convenzioni di Ginevra in materia di protezione delle donne in contesti di conflitti armati internazionali e interni (articolo 76.1 del I Protocollo e articolo 4.2(e) del II Protocollo).
Sul piano del diritto internazionale penale, gli Statuti dei Tribunali penali internazionali per i crimini commessi, rispettivamente, nella ex Jugoslavia e in Ruanda definiscono lo stupro come crimine contro l’umanità, agli articoli 5(g) dello Statuto del ICTY e all’art.3(g) dello Statuto ICTR; quest’ultimo all’articolo 4 dispone, inoltre, che esso si identifichi come una violazione dell’articolo 3 delle Convenzione di Ginevra e del II Protocollo addizionale. Infine, lo Statuto della Corte Penale Internazionale riconosce lo stupro come un crimine ai sensi dell’articolo 6, con riferimento al genocidio, quando gli atti di violenza sessuale sono utilizzati con l’intento di distruggere in tutto o in parte un particolare gruppo; all’articolo 7.1(g) come crimini contro l’umanità, mentre l’articolo 8 considera lo stupro e ogni forma di violenza sessuale nei conflitti armati, internazionali e non, come crimini di guerra, precisamente all’art. 8.2 (b)(xxii) e art.8.2(e)(vi).
Il Rapporto annuale è il frutto del lavoro dell’Ufficio del Rappresentante Speciale del Segretario Generale sulla violenza sessuale nei conflitti, istituito con la Risoluzione 1888 (2009) del Consiglio di Sicurezza, ruolo oggi ricoperto da Pramila Patten. Il lavoro della Rappresentante Speciale è coadiuvato dal Team di esperti delle Nazioni Unite sullo Stato di diritto e violenza sessuale nei conflitti (TOE), composto da specialisti del Dipartimento per le operazioni di pace (DPO), dell’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR) e del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP). Al momento dell’insediamento, nell’aprile del 2017, Pramila Pattern ha tracciato le tre priorità strategiche alla base del suo mandato, quali: convertire la cultura dell’impunità in una cultura di giustizia e responsabilità attraverso azioni penali coerenti ed efficaci; promuovere la leadership e ownership nazionale per una risposta sostenibile e survivor-centered; affrontare le cause profonde della violenza sessuale, quali la disuguaglianza strutturale di genere e la discriminazione, la povertà e l’emarginazione.
Grazie ai rapporti annuali pubblicati in questi anni è stato possibile creare una ricostruzione documentata e pubblica dei casi di violenza sessuale in contesti di conflitto e post-conflitto corredata dall’individuazione delle entità sospettate di essere responsabili di tali crimini; inoltre, ciascun rapporto si basa, esclusivamente, su dati accertati e documentati dalle Nazioni Unite. Tornando al più recente rapporto pubblicato nel marzo 2022, esso copre il periodo gennaio-dicembre 2021 e analizza la situazione in 15 paesi in conflitto e 3 in una fase post-conflittuale, mentre negli allegati identifica gli attori statali e non-statali che, credibilmente, sono sospettati di aver commesso o essere responsabili di violenza sessuale.
In merito al meccanismo obbligatorio di listing “naming and shaming” previsto negli allegati del rapporto annuale del Segretario Generale, si tratta di uno degli strumenti identificati dalla Risoluzione 1960 (2010) per combattere l’impunità e garantire la prevenzione e la protezione dalla violenza sessuale nei conflitti, assieme al meccanismo di raccolta di informazioni a livello ONU sui casi di violenza sessuale in contesti conflittuali e post-conflittuali, noto come “MARA” (Monitoring, Analysis and Reporting Arrangements).
In un precedente rapporto del Segretario Generale (A/64/742-S/2010/181), in merito alla difesa dei bambini nei conflitti armati, sono stati definiti i criteri di inserimento e rimozione dalla lista, richiamati dalla Risoluzione 1960 (2010) ed estesi anche per il listing delle parti sospettate di perpetrare violenza sessuale nei conflitti: in primo luogo, è necessario che vi sia un “pattern”, ovvero un modello che denoti un piano metodico, un sistema e una collettività di vittime; inoltre, deve essere dimostrata la sistematicità degli atti, i quali devono essere perpetrati nello stesso contesto per potersi definire “collegati”. La rimozione dalla lista di un attore, statale o non-statale, può avvenire a condizione che vi siano informazioni verificate dalle Nazioni Unite che dimostrino la cessazione delle suddette violazioni per un periodo di almeno un ciclo di rapporti. Una volta rimosso, seguirà un periodo di monitoraggio e resoconto della situazione fino a quando il Segretario Generale non ritenga che sia cessato il timore del ripetersi di tali violazioni. Al fine di garantire il corretto funzionamento del processo di monitoraggio l’attore in questione deve sottoporsi al controllo dei funzionari delle Nazioni Unite impegnati in tale attività. Qualora la parte non rispetti gli impegni per il periodo di tempo indicato, potrà essere reinserita negli allegati e il Consiglio di Sicurezza potrà essere informato del mancato rispetto degli impegni assunti.
Al concetto di violenza sessuale legata ai conflitti si riconduce un ampio spettro di violenze quali: «rape, sexual slavery, forced prostitution, forced pregnancy, forced abortion, enforced sterilization, forced marriage, and any other form of sexual violence of comparable gravity perpetrated against women, men, girls or boys that is directly or indirectly linked to a conflict» (S/2022/272, par. 4). Ciò che si evince dal Rapporto, e dai precedenti, è che nonostante la singolare complessità di ciascun conflitto, in termini di cause e dinamiche, è possibile individuare tendenze e modelli comuni nei diversi contesti analizzati quando si affronta la tematica della violenza sessuale: difatti, in linea generale, si può affermare che nei contesti di crisi politiche e di sicurezza, aggravate da un aumento della militarizzazione delle parti e proliferazione delle armi, la violenza sessuale continua ad essere utilizzata come tattica di guerra, tortura e terrorismo.
Nei Paesi in cui si è registrato un cambio incostituzionale di regime, come Afghanistan, Burkina Faso, Guinea, Mali, Myanmar e Sudan, il vortice di insicurezza, crisi economica, e violazione dei diritti umani che ne è scaturito ha visto l’utilizzo della violenza sessuale come mezzo attraverso cui assoggettare e umiliare i gruppi di opposizione e le comunità rivali. Inoltre, in alcuni di questi Paesi, gli attori che hanno preso il potere sono gli stessi ad essere stati coinvolti in casi accertati di violenza sessuale legata al conflitto, come i Talebani in Afghanistan. Un altro fenomeno a cui si è assistito in contesti come Afghanistan, Libia, Myanmar, Sudan, Yemen è che a una riduzione degli spazi per la società civile da parte delle autorità è scaturito un aumento dei casi di violenza sessuale contro attiviste politiche o donne sulla base della loro reale o presunta affiliazione politica.
L’anno 2021 ha visto la pandemia da COVID-19, assieme al conflitto e alla crisi politica, esacerbare, in molti casi, i già esistenti ostacoli che si frappongono all’accesso alla giustizia e ai servizi sanitari per le vittime di violenza sessuale, quali lo stigma sociale, la paura di ritorsioni e la debolezza delle istituzioni statali. Va ricordato che la crisi sanitaria globale aveva già notevolmente ridotto l’accesso umanitario in zone di conflitto e le risorse economiche assegnate ai servizi per le vittime di violenza sessuale, rendendo ancora più complesso l’accesso a tali strutture.
Altra condizione comune a molti Paesi è lo stato di insicurezza e vulnerabilità a cui vengono esposti gli sfollati interni (IDPs) e i rifugiati che sono costretti ad abbandonare le proprie abitazioni a causa dello scoppiare di un conflitto armato. In queste situazioni aumenta notevolmente il rischio di subire violenze sessuali, come dimostrano i casi documentati in Repubblica Centrafricana e in Repubblica Democratica del Congo. Di pari gravità sono le violenze sessuali perpetrate a danno di donne e, in alcuni casi, uomini, migranti all’interno dei centri di detenzione in Libia e Yemen, o i casi di violenza e sfruttamento registrati nel contesto del rapimento e della tratta di migranti da parte di gruppi terroristici a Cabo Delgado, in Mozambico, nel bacino del Lago Ciad, in Mali e in Burkina Faso.
Per cercare di invertire la tendenza ad estromettere le donne che subiscono violenza dalla vita economica, sociale e politica del Paese, è importante menzionare il tentativo portato avanti in Repubblica Centrafricana per porre al centro del “dialogo repubblicano” la voce delle sopravvissute alla violenza sessuale, dimostrando nuovamente la resilienza e l’agency di queste ultime nel mettere in evidenza l’importanza della protezione come base per una partecipazione politica attiva.
Il Rapporto in esame sottolinea come i rischi legati alla violenza sessuale nel corso di attività di sussistenza, principalmente legate al settore primario, per le donne e ragazze che sono costrette a spostarsi per lunghi tratti in un contesto di insicurezza siano molto elevati; ne è un esempio il caso del Sudan in cui, da luglio ad ottobre 2021, in corrispondenza della stagione agricola, si è registrato un aumento degli episodi di violenza sessuale, soprattutto lungo le rotte della transumanza.
Altra tendenza denunciata è la cultura dell’impunità che protegge i responsabili degli atti di violenza sessuale e la lentezza con cui la giustizia agisce in tutela delle vittime; in tal senso, è esemplificativo il ritardo con cui la Corte interamericana dei diritti umani ha emanato, a due decenni dai fatti, la sentenza di condanna della Colombia per il sequestro e la violenza sessuale ai danni della giornalista Jineth Bedoya. Analogamente, nel 2021, in Guatemala, cinque ex membri del gruppo paramilitare Patrullas de Autodefensa Civil (PAC) sono stati condannati per crimini di violenza sessuale commessi contro le donne indigene Maya Achi all’inizio degli anni Ottanta. Meritevole di menzione è l’adozione nel 2021 in Iraq della legge sul sostegno alle donne yazide sopravvissute, con cui si stabilisce che la politica di stupro e schiavitù sessuale messa in atto da Da’esh contro gli yazidi e altri gruppi costituisce genocidio e crimine contro l’umanità. Tuttavia, il Paese continua a confrontarsi con le preoccupanti conseguenze dei crimini perpetrati da Da’esh nel periodo 2014-2017, come l’aumento del numero dei suicidi all’interno della comunità yazida, anche tra coloro sopravvissute ad abusi sessuali. Inoltre, desta allarme la continua detenzione di molte donne e bambini presumibilmente associati a Da’esh in Iraq, Libia e Repubblica Araba Siriana.
Dunque, dalla panoramica fin qui delineata circa l’utilizzo della violenza sessuale come strumento di terrore e terrorismo in situazioni conflittuali o post-conflittuali, si evince che il rispetto da parte dei belligeranti degli standard internazionali in materia continui ad essere gravemente insufficiente, nonostante gli sforzi del Consiglio di Sicurezza. È poi significativo che il 70% delle parti elencate negli Allegati al Rapporto sia costituito da attori statali e non-statali già individuati da tempo come presunti responsabili di casi di violenza sessuale legata ai conflitti, a riprova del fatto che molti dei conflitti i presi in esame siano di lunga durata e che le violazioni dei diritti umani, inclusa la violenza sessuale, siano effettivamente utilizzate dalle parti come tattica all’interno di una più ampia strategia militare.
Il Segretario Generale, in conclusione, raccomanda un’azione concertata e investimenti per agire in prevenzione, ma anche per cercare di affrontare le cause strutturali che sono alla base di tali crimini. Raccomanda un maggiore impegno politico e diplomatico nel contesto dei negoziati e degli accordi di pace; l’inclusione della violenza sessuale come atto vietato nei quadri di definizione e monitoraggio degli accordi di cessate il fuoco, oltre che l’inclusione come criterio di designazione a sé stante per sanzioni mirate; l’uso di indicatori di allarme precoce della violenza sessuale legata ai conflitti; la riduzione del flusso di armi leggere e di piccolo calibro; e in ultimo una riforma della giustizia e del settore della sicurezza che rispondano alle esigenze di genere, favorendo da una parte la partecipazione attiva delle sopravvissute e delle comunità colpite e rimuovendo dall’altra le barriere all’accesso alla giustizia che inibiscono le vittime a denunciare.
Ad oggi non è stato ancora pubblicato il Rapporto annuale del Segretario Generale sulla violenza sessuale nei conflitti con riferimento al 2022; tuttavia, già purtroppo si può ipotizzare sia la denuncia di numerosi casi di violenza sessuale nel contesto della guerra russo-ucraina, sia l’assenza di una generale inversione di tendenza rispetto all’utilizzo della violenza sessuale come tattica di guerra, tortura e terrorismo.
Federica Persico
Studentessa del Master in Tutela Internazionale dei diritti umani “Maria Rita Saulle”
Link e materiale utile:
Sito UN Political and Peacebuilding Affairs, Women, Peace and Security, LINK
Sito Office of the Special Representative of the Secretary-General on Sexual Violence in Conflict, LINK
“Rape as a human rights violation”, Human Rights Workout, LINK
Sintesi ufficiale della sentenza della Corte Interamericana dei diritti umani nel caso Bedoya Lima c. Colombia (2021) LINK e testo completo della sentenza LINK