Per la Corte europea dei diritti umani l’ergastolo ostativo è un trattamento inumano e degradante: la sentenza Marcello Viola c. Italia (13.06.2019)

AFFAIRE MARCELLO VIOLA c. ITALIE (No 2) (Requête no 77633/16)

 Approfondimento n. 28/2019                                                                                                                                                                                                                                                                                   

La Corte europea dei diritti umani nella sentenza Marcello Viola c. Italia(n. 2 – 77633/16) del 13 giugno scorso, ha stabilito che l’ergastolo ostativo e la privazione della possibilità di partecipare a programmi di riabilitazione per i detenuti la cui pena il cd. “fine-vita-mai”, rappresenta una violazione dell’art. 3 della Convenzione e costituisce trattamento inumano e degradante.

Nel caso di specie, la Corte ha accolto il ricorso di Marcelo Viola, detenuto condannato all’ergastolo poiché ritenuto il boss di una preminente organizzazione criminale di stampo mafioso, trovando applicazione la legge n. 356/1992 la quale ha introdotto per i condannati, detenuti in regime di 41-bis, la pena massima in assenza di collaborazione con la giustizia. 

All’origine dei fatti vi è la possibilità per il ricorrente, fornita dalle autorità giudiziarie italiane, di collaborare con la giustizia a patto che egli fornisse elementi utili ad individuare i responsabili di gravi reati determinati dalla sua condizione di boss mafioso. Viola rifiutò di collaborare in questi termini poiché non solo si riteneva innocente, ma anche perché temeva rappresaglie nei confronti dei suoi familiari che si trovano all’esterno del carcere. 

Il ricorrente, inoltre, aveva anche maturato i requisiti per richiedere di entrare a far parte di un programma di riabilitazione, finalizzato al suo graduale reinserimento nella società. In conseguenza del suo rifiuto a collaborare, il magistrato di sorveglianza, il quale aveva rilevato la sua idoneità ad essere inserito in programmi di riabilitazione, non aveva messo in atto alcun tipo di azione che potesse facilitarne il suo inserimento.

La Corte di Strasburgo ha rilevato che le autorità italiane abbiano giustificato la conferma dell’ergastolo ostativo con una presunzione di inconfutabile pericolosità del ricorrente in ragione del suo rifiuto a collaborare nei termini proposti dalla Procura responsabile. La Corte ha evidenziato, infatti, che la decisione di non collaborare del ricorrente sia stata dettata dal timore per l’incolumità dei suoi cari e non costituirebbe quindi una decisione libera e incondizionata. Le autorità italiane non avendo tenuto conto di tale condizionamento, avrebbero operato superficialmente senza indagare la vera natura della scelta fatta dal ricorrente.

Le autorità italiane, inoltre, secondo la Corte, hanno di fatto privato il ricorrente di ogni possibilità di essere inserito in programmi di riabilitazione, nonostante ci fossero degli elementi che evidenziavano, nel periodo della sua detenzione, un dimostrato cambiamento della sua personalità. Infatti, la Corte rileva che la personalità di un detenuto non rimane sempre uguale, in quanto può essere soggetta a cambiamenti in positivo che ne giustifichino misure di alleggerimento della pena inflitta. 

L’inconfutabile presunzione della pericolosità del ricorrente avrebbe, quindi, a giudizio della Corte, impedito al magistrato di sorveglianza di riconoscere le circostanze per l’alleggerimento della pena del ricorrente, privandolo quindi di una prospettiva di riabilitazione e di reintegrazione sociale.

A dire il vero, la Corte ha anche riconosciuto che il regime del 41-bis, meglio noto come “carcere duro”, e la previsione della pena massima, nello specifico l’ergastolo ostativo, prevista dall’ordinamento penale italiano (in base alla legge n. 356/1992), siano misure inserite dal legislatore italiano e dettate da una situazione di grave emergenza per la società italiana in conseguenza dei tragici eventi ad opera delle preminenti organizzazioni di stampo mafioso che nei primi anni ’90 avevano colpito la società italiana. Tuttavia, la Corte sottolinea che le gli sforzi compiuti dall’Italia nel combattere la piaga della mafia non giustifichino alcuna deroga all’art. 3 della Convenzione (divieto di tortura e di ogni trattamento inumano e degradante), riconosciuta a ben vedere quale norma imperativa e inderogabile del diritto internazionale. In riferimento al caso di specie, la Corte ha sottolineato, però, che la sua decisione in merito non implica in alcun modo la prospettiva di un rilascio imminente per il ricorrente.

Debora Capalbo

Dottore di ricerca in  Diritto pubblico, comparato e internazionale

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