Nessuna eccezione ai respingimenti e rimpatri di rifugiati e richiedenti asilo: la sentenza della CGUE del 14 maggio 2019 conferma che il diritto dell’UE ha esteso la garanzia di non refoulement prevista dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra
Judgment of the Court of Justice in Joined Cases C-391/16 M, C-77/17 X, C-78/17 X
Approfondimento 20/2019
La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 14 maggio 2019, nelle cause riunite C‑391/16, C‑77/17 e C‑78/17 ribadisce alcuni principi fondamentali che gli Stati membri dell’Unione europea sono tenuti a rispettare quando decidono di respingere o rimpatriare persone cui siano state negate o revocate misure di protezione ai sensi della Direttiva 2011/95/UE relativa all’attribuzione a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, a uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché al contenuto della protezione riconosciuta.
Si tratta di una sentenza resa in un procedimento di rinvio pregiudiziale, sulla base della richiesta formulata, secondo l’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’UE, dalla Corte suprema amministrativa della Repubblica ceca e dal Consiglio per il contenzioso degli stranieri belga davanti al quale pendevano tre controversie riguardanti ricorsi presentati da cittadini extracomunitari (un ivoriano, un congolese e un ceceno) cui le autorità avevano negato o revocato lo status di rifugiato o il beneficio della protezione sussidiaria. Si trattava quindi di procedimenti in cui i giudici nazionali sollecitavano la Corte a interpretare e determinare la validità di alcune norme della Direttiva 2011/95/UE, in particolare l’art. 14, paragrafi da 4 a 6, per consentirne la corretta applicazione ai casi in esame, in coordinamento con la legislazione nazionale della Repubblica ceca e del Belgio di attuazione della Direttiva. In esito a procedimenti del genere, il giudice nazionale è tenuto a risolvere la controversia principale in conformità alla sentenza resa dalla Corte.
Ma quali sono i punti più rilevanti della decisione? Direi soprattutto due.
Il primo riguarda gli artt. 14 e 21 della Direttiva. La sentenza conferma anzitutto che l’art. 14 offre ai richiedenti asilo o rifugiati cui sia stato negato o revocato tale status, una protezione maggiore in materia di respingimento o rimpatrio di quanto non faccia l’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951. Quest’ultima infatti stabilisce il divieto di respingere o espellere, in nessun modo, una persona verso le frontiere di territori dove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche. Il principio di non respingimento si applica non solo a chi si trova già sul territorio dello Stato in qualità di rifugiato, ma anche a chi si presenta alla frontiera (terrestre o marittima) come richiedente asilo. Tuttavia, l’art. 33 stabilisce, come eccezione, che il principio non può essere fatto valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese.
L’art. 21, par. 2, della Direttiva 2011/95 sulle garanzie relative al respingimento, invece, deve essere interpretato e applicato in osservanza dei diritti garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, in particolare dei suoi artt. 4 e 19, par. 2, che vietano in termini perentori la tortura nonché le pene e i trattamenti inumani o degradanti, a prescindere dal comportamento dell’interessato, così come l’allontanamento verso uno Stato in cui esista un rischio serio di essere sottoposto ai trattamenti vietati. La Carta europea dei diritti fondamentali costituisce il parametro di valutazione per l’applicazione del principio di non refoulement, che non può soffrire eccezioni nemmeno nel caso in cui lo straniero sia un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico o abbia commesso gravi reati.
Il secondo punto rilevante della sentenza riguarda l’interpretazione dell’art. 14, paragrafi 4 e 5, della Direttiva 2011/95, nel senso che a seguito di diniego o revoca dello status di rifugiato lo straniero non perde la qualità di rifugiato, in quanto non cessa di rispondere ai requisiti materiali da cui dipende tale qualità, relativi all’esistenza di un fondato timore di persecuzioni nel suo paese d’origine. Per questo tali persone godono di alcuni diritti previsti dalla Convenzione di Ginevra, in particolare: divieto di discriminazioni, libertà di religione, diritto di adire i tribunali, diritto all’istruzione pubblica, e così via, o di diritti analoghi, purché siano presenti nello Stato membro, anche se non hanno titolo per una residenza regolare. Lo Stato membro è infine tenuto a riconoscere a queste persone alcuni diritti previsti dalla Carta europea dei diritti fondamentali, come il diritto al rispetto della vita privata e familiare, il diritto alla libertà professionale e di lavorare, il diritto alla previdenza sociale e assistenza sociale, alla protezione della salute.
Ora, è evidente che la sentenza in esame incide sulla politica dei rimpatri in quanto conferma il divieto di respingere o rimpatriare un richiedente asilo o un rifugiato al quale – a seguito di condanna definitiva – sia stata revocata la protezione internazionale, se nel Paese di origine esiste, o continua a esistere, la possibilità che venga perseguitato o sottoposto a tortura o a trattamenti inumani e degradanti. Quindi, è vero che l’art. 7 del “Decreto sicurezza” ha l’ampliato le categorie di reati per i quali è possibile il diniego o la revoca della protezione internazionale e quindi le categorie di stranieri passibili di un provvedimento di diniego o revoca, ma è anche vero che tale aumento non incide sulla possibilità di respingere tali persone verso lo Stato d’origine o verso un paese terzo, perché a ciò ostano le norme delle quali la Corte ha interpretato la portata e la validità nella sentenza del 14 maggio.
All’adempimento degli obblighi ai quali ho fatto riferimento l’Italia è tenuta in base alla sua legislazione nazionale, soprattutto quella che ha dato attuazione alla Direttiva 2011. In altri termini, i principi ribaditi dalla sentenza della Corte ostano all’attuazione di una politica di respingimenti e rimpatri che violi il principio del non refoulement come interpretato dalla Corte di giustizia.
Le cause di diniego e revoca dello status di rifugiato sono infatti regolate rispettivamente dagli artt. 12 e 13 del d. lgs. 251/2007, che l’art. 7 del “Decreto sicurezza” del 2018 ha in parte modificato, aumentando le cause di diniego o revoca in relazione a condanne per altri reati rispetto a quelli originariamente previsti, senza toccare però il divieto di respingere o rimpatriare i rifugiati e richiedenti asilo verso il paese d’origine o verso un terzo paese ove permanga il rischio di persecuzione o di sottoposizione a tortura e altri trattamenti inumani e degradanti. Tale divieto è stato espressamente confermato dalla l. 14 luglio 2017, n. 110 sull’introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano, che, nella parte in cui modifica l’art. 19 del T.U. sull’immigrazione, specifica quanto segue: «Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani». Inoltre, la l. Legge n. 47/2017 sulle misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati stabilisce che in nessun caso può disporsi il respingimento alla frontiera di minori stranieri non accompagnati.
Nel caso di provvedimenti di divieto o revoca dello status di rifugiato, e, soprattutto, di respingimento verso paesi non sicuri, gli interessati hanno a disposizione i rimedi giurisdizionali offerti dal nostro ordinamento giuridico. Il giudice chiamato a decidere le relative controversie sarà tenuto, fra l’altro, ad applicare le norme di attuazione della Direttiva 2011/95/UE attenendosi all’interpretazione data dalla sentenza della Corte del 14 maggio 2019. Infatti, la sentenza con la quale la Corte si pronunzia in via pregiudiziale sull’interpretazione o sulla validità di un atto adottato da un’istituzione dell’UE, vincola non solo il giudice nazionale per la definizione della lite principale, ma anche giudici diversi da quelli del rinvio (in qualsiasi Stato membro si trovino a operare, ad es. in Italia). Alle sentenze interpretative va infatti riconosciuta una sostanziale efficacia erga omnes e prevalgono sull’eventuale diritto nazionale incompatibile, come hanno affermato la nostra Corte costituzionale, nonché la Suprema Corte.
Per quanto attiene al c.d. blocco dei porti, questa sentenza incide nello stesso senso precisato sopra, in relazione alla violazione di numerosi obblighi internazionali di cui l’Italia è titolare. Il punto essenziale riguarda l’ammissione nel territorio dello Stato dello straniero che chiede lo status di rifugiato, al fine di consentirgli di presentare la richiesta e di soggiornarvi nelle more del relativo accertamento. La Convenzione di Ginevra rinvia, per questi aspetti, alla legislazione del Paese di destinazione e alla procedura da esso stabilita, ma stabilisce al contempo un obbligo di protezione a carico dello Stato al quale il richiedente asilo intende presentare domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato. Tale protezione implica l’ammissione temporanea al territorio, al fine di accertare la situazione dei singoli individui, distinguendo tra quanti chiedono lo status di rifugiato e quanti invece chiedono protezione ad altro titolo o si dichiarano migranti economici. Quindi, la politica attuale del Governo italiano contrasta con questo aspetto fondamentale, in quanto la chiusura indiscriminata dei porti e delle frontiere colpisce anche stranieri ai quali si deve riconoscere, tramite atto meramente ricognitivo, lo status di rifugiati.
Più in generale, la persona umana, in quanto tale, è protetta dalle convenzioni internazionali che obbligano al salvataggio in mare, come quelle per la salvaguardia della vita in mare (SOLAS, Londra, 1974, ratificata dall’Italia con l. n. 313 del 1980); sulla ricerca e il salvataggio marittimo, che reca un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare e il dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (SAR, Amburgo, 1979, ratificata dall’Italia con l. n. 147 del 1989); sul diritto del mare (UNCLOS, Montego Bay 1982, ratificata dall’Italia). Impedire l’ammissione nei porti alle navi che hanno effettuato operazioni di salvataggio equivale a una forma di respingimento collettivo alla frontiera, che è vietato perché prescinde dall’esame delle posizioni individuali (art. 4 della CEDU e relativa giurisprudenza). Ciò vale anche in relazione alle navi straniere. Infatti, è vero che le acque portuali sono, secondo il diritto internazionale, acque interne dello Stato – per cui l’accesso ai porti delle navi straniere è condizionato all’autorizzazione dello Stato costiero – nondimeno, l’accesso in porto o nelle acque interne deve essere comunque consentito quando è reso necessario per cause di forza maggiore o di estremo pericolo per la nave e per le persone a bordo della stessa, o è imposto dal diritto internazionale dei diritti umani.
Come ho sottolineato, tocca a tutti gli organi dello Stato applicare la normativa nazionale sulla protezione dei rifugiati e richiedenti asilo in conformità agli obblighi di cui l’Italia è titolare in base al diritto internazionale e al diritto dell’Unione europea, ai quali l’art. 117 della Costituzione riconosce valore prevalente sulla legislazione nazionale. A tali organi spetta anche garantire alle persone cui sia stato negato o revocato lo status di rifugiato il godimento dei diritti previsti dalla Convenzione di Ginevra richiamati dall’art. 14, par. 6, della Direttiva 2011/95/UE.
Il rifugiato cui è stato revocato o negato il relativo status, o che è destinatario di provvedimenti di respingimento o rimpatrio, non può ricorrere direttamente alla Corte di giustizia dell’Unione europea, perché tale possibilità è esclusa dal diritto dell’Unione. Si può però ricorrere avverso i provvedimenti in oggetto al competente giudice nazionale secondo i rimedi previsti dal nostro ordinamento. All’interno di tali procedimenti potranno essere eventualmente proposte domande alla Corte dell’UE, attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale, che può essere utilizzato come strumento per far risaltare, a vantaggio dei singoli, l’incompatibilità del diritto nazionale con il diritto dell’UE, oltreché che per ottenere l’interpretazione del suddetto diritto o l’accertamento della sua validità. Si tratta infatti di un procedimento “giudice a giudice” analogo al rinvio per il controllo di costituzionalità delle leggi. Andranno escluse domande alle quali la Corte ha già risposto, come quelle di cui alla sentenza del 14 maggio.
Applicare la sentenza significa applicare la normativa italiana in modo conforme all’interpretazione con cui la Corte ha chiarito la portata della Direttiva 2011/95/UE soprattutto in materia di provvedimenti di revoca o diniego dello status di rifugiato. Se, nonostante la sentenza, l’Italia procedesse a respingimenti e rimpatri di stranieri rifugiati o richiedenti asilo in contrasto con le norme del suo stesso ordinamento giuridico, oltreché con quelle dell’Unione, compresa la Carta dei diritti fondamentali, e con il diritto internazionale, a livello europeo potrebbe essere avviata dalla Commissione una procedura d’infrazione secondo gli artt. 258-260 del TFUE. La procedura è lunga e complessa; in esito ad essa, lo Stato riconosciuto inadempiente ha l’obbligo di adottare i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza comporta, con il rischio di una doppia condanna in caso di mancato adeguamento.
Sergio Marchisio
Direttore del Master