La Corte internazionale di giustizia si pronuncia all’unanimità sulle misure conservative per salvaguardare i diritti dei Rohingya e garantire la loro protezione nel Myanmar
Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide (Gambia v. Myanmar), ICJ Request for the Indication of Provisional Measures, 23 January 2020
Approfondimento n.3/2020
Il 23 gennaio 2020, la Corte internazionale di giustizia ha reso la sua ordinanza circa la richiesta di indicare misure conservative presentata dalla Repubblica del Gambia nel caso relativo all’Applicazione della Convenzione del 1948 sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio.
Nei fatti, lo scorso 11 novembre 2019, la Repubblica del Gambia ha presentato una mozione per avviare un procedimento contro la Repubblica dell’Unione del Myanmar in relazione a presunte violazioni della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. In tale mozione, la Repubblica del Gambia sostiene in particolare che il Myanmar ha commesso e continua a commettere atti di genocidio contro membri del gruppo Rohingya, che risiedono principalmente nella regione di Rakhine nel Myanmar.
La Repubblica del Gambia ha richiesto l’intervento della giurisdizione della Corte in base all’articolo IX della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, che prevede che le controversie tra le Parti contraenti relative all’interpretazione, all’applicazione, o all’esecuzione della Convenzione siano risolte innanzi alla Corte internazionale di giustizia, su richiesta di una delle Parti alla controversia. La Corte ha osservato che la Repubblica del Gambia e il Myanmar sono Parti alla convenzione e che nessuna delle due ha esposto una riserva sull’articolo IX.
La Corte ha ricordato che il suo potere di indicare misure provvisorie (art.41.1 del suo Statuto) “è esercitato solo se esiste un rischio reale e imminente che un danno irreparabile sia causato ai diritti in questione prima che la Corte pronunci la sua decisione finale“. In questo caso, l’esercito del Myanmar ha commesso numerose atrocità contro i Rohingya, inclusi omicidi, stupri e incendi dolosi, culminati in una campagna di pulizia etnica alla fine del 2017 che ha portato all’esilio di 740.000 Rohingya in Bangladesh. Nel settembre 2019, la Missione d’Inchiesta Internazionale Indipendente per l’accertamento dei fatti nel Myanmar, sostenuta dalle Nazioni Unite, ha evidenziato che i 600.000 rohingya rimasti in Myanmar “potrebbero affrontare la più grande minaccia di genocidio mai rilevata”. In questo contesto, l’ordine della Corte, giuridicamente vincolante per le Parti, che impone al Myanmar di prevenire tutti gli atti di genocidio contro i musulmani Rohingya, costituisce una decisione cruciale per proteggere i membri di questa comunità.
Inoltre, la Corte ha richiesto al Myanmar di impedire tutti gli atti elencati nell’articolo II della Convenzione (art.II: “il genocidio significa atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso […]”), per garantire che i suoi soldati non commettano atti di genocidio, e di adottare misure efficaci per conservare le prove relative al crimine di genocidio. Infine, la Corte ha ordinato al Myanmar di riferire sull’attuazione dell’ordinanza entro quattro mesi, e successivamente ogni sei mesi.
Ai sensi dell’articolo 41, paragrafo 2, dello Statuto della CIG, l’indicazione delle misure provvisorie della Corte viene automaticamente notificata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Tale notifica aumenta le pressioni sul Consiglio affinché intraprenda azioni concrete in Myanmar. Il Consiglio potrebbe quindi, in ipotesi, adottare una risoluzione che chieda al Myanmar di revocare le restrizioni alla libertà di movimento dei Rohingya, di eliminare le restrizioni non necessarie all’accesso umanitario nello Stato di Rakhine, di abrogare le leggi discriminatorie e di vietare pratiche che limitano l’accesso di Rohingya all’istruzione, all’assistenza sanitaria e ai mezzi di sussistenza.
Conseguentemente, altri organi delle Nazioni Unite potrebbero adottare provvedimenti per rafforzare l’attuazione di tale richiesta. In aggiunta, questo costituirebbe un momento di riflessione per il Consiglio per i diritti umani e l’Assemblea Generale sull’adozione di risoluzioni che spingano il Myanmar a conformarsi alle loro disposizioni. Ciò incoraggerebbe anche gli Stati membri ad intraprendere misure concrete, a titolo individuale, nelle loro relazioni bilaterali con il Myanmar.
Anne-Sophie Martin
Dottoressa di Ricerca in Diritto pubblico, comparato e internazionale