Il suicidio medicalmente assistito: tra salvaguardia della vita e autodeterminazione della persona

Il parere del Comitato nazionale per la bioetica del 18 luglio 2019, “Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito”

Approfondimento n. 31/2019                                                                                                                                                                                                                                                                                   

La questione del suicidio medicalmente assistito è emersa con forza negli ultimi anni per le sue importanti implicazioni riguardanti il valore della vita umana, la dignità della persona e la tutela dei diritti fondamentali. Si tratta situazioni che, seppur accomunate da una medesima finalità, sono molto diverse tra loro e vanno dal c.d. “accompagnamento nel morire”, alle cure palliative, sino al rifiuto di trattamenti sanitari salvavita previsti dalla L. 219/2017. 

In materia è intervenuta la Corte costituzionale con l’ordinanza n. 207/2018 in merito alla presunta incostituzionalità dell’art. 580 del codice penale. Quest’ultimo, secondo la Corte costituzionale, è funzionale alla protezione del diritto alla vita, previsto dall’art. 2 della Costituzione e dall’art. 2 della Convenzione europea dei diritti umani e comportante l’obbligo positivo dello Stato di adottare tutte le misure necessarie per garantire tale diritto. Tuttavia, esistono oggi situazioni ugualmente meritevoli di protezione, determinate dalla possibilità di mantenere in vita persone costrette a vivere in uno stato irreversibilmente compromesso, tale da potersi ritenere non dignitoso. Secondo la Corte, affinché una persona si trovi in tale situazione sono necessari quattro elementi: 1) la patologia di carattere irreversibile; 2) le sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili; 3) i trattamenti di sostegno per il mantenimento in vita; 4) la capacità di adottare decisioni libere e consapevoli. In tale ordinanza la Corte evidenzia delle analogie tra il rifiuto al trattamento sanitario, consentito dalla L. 219/2017, e la richiesta di aiuto al suicidio da parte del malato, rilevando l’opportunità di un intervento del legislatore per definire le modalità e i contorni del diritto del soggetto a ricevere un trattamento di fine vita. 

In seguito a tale pronuncia, il Comitato nazionale di bioetica ha voluto, alla luce del suo mandato, esprimere un parere sul tema dell’aiuto al suicidio per dare risalto alle differenti posizioni esistenti nella società odierna al fine di stimolare il dibattito politico. La questione di fondo riguarda dunque il complesso bilanciamento tra il fine della tutela della vita umana in ogni circostanza e la libertà di ciascuno di vivere in modo dignitoso, arrivando fino alla scelta di porre fine alla vita stessa ove tale dignità non possa essere garantita. 

Innanzitutto, il Comitato chiarisce la distinzione tra eutanasia e aiuto al suicidio. La differenza risiede nella persona che compie l’ultimo atto che provoca la morte, indipendentemente dalla determinante collaborazione di un terzo. In merito a tale differenza vi sono due differenti posizioni. La prima assimila le due situazioni in quanto vi è una sostanziale equivalenza; la seconda pone in risalto la diversità di principio tra un atto compiuto dalla persona stessa e un atto compiuto da un terzo. In entrambi i casi, all’origine e alla realizzazione dell’atto vi è l’espressa volontà della persona. Nel nostro ordinamento, entrambe le fattispecie sono qualificate come reati in quanto rientranti nell’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), nel caso dell’eutanasia, e nell’istigazione al suicidio (art. 580 c.p.), nel caso dell’aiuto al suicidio. Si deve tuttavia considerare che la L. 219/2017 sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento consente il rifiuto e la rinuncia informati e consapevoli del paziente a qualsiasi trattamento sanitario. 

In seguito all’analisi di tali disposizioni, il Comitato discute i temi centrali del problema: 1) il valore da attribuire all’espressione di volontà della persona, espressa attraverso il consenso informato e quale espressione non già della “capacità di intendere e volere”, ma “capacità di autodeterminarsi”, pur considerando che l’atteggiamento delle persone gravemente malate può essere ambivalente e incostante; 2) il rispetto dei valori professionali del medico e degli operatori sanitari, sul quale emergono due prospettive antitetiche connesse ai compiti professionali del medico; 3) il rischio che una eventuale legislazione permissiva vada oltre le iniziali intenzioni e sia applicata in situazioni nelle quali la capacità di consenso esplicito è più incerta; 4) l’importanza delle cure palliative e delle terapie del dolore quale prerequisito per l’accesso all’aiuto al suicidio, anche in funzione di un ripensamento del paziente. 

Il parere del Comitato identifica tre differenti prospettive. In primo luogo, undici membri del Comitato si oppongono fermamente al suicidio medicalmente assistito, ritenendo che la difesa della vita umana debba essere affermata come un principio essenziale. Su tali basi si ritiene che un’eventuale legittimazione del suicidio medicalmente assistito: a) alteri il principio secondo cui il compito primario del medico sia la tutela della vita dei pazienti; b) non possa essere giustificata sulla base della volontà del paziente; c) favorisca inevitabilmente un progressivo superamento dei limiti eventualmente indicati dalla normativa. 

La seconda posizione, quella maggioritaria, riguarda la posizione di tredici membri favorevoli alla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito in presenza di determinate condizioni.  Tale intervento normativo deve avvenire attraverso il bilanciamento di diversi valori e in presenza di: una malattia grave e irreversibile accertata da almeno due medici indipendenti; uno stato prolungato di sofferenza fisica o psichica non curabile o insopportabile per il malato; una richiesta esplicita espressa in forma chiara e ripetuta, in un lasso di tempo ragionevole. Secondo questa prospettiva, la presenza di un trattamento di sostegno vitale quale condizione aggiuntiva per l’accesso all’aiuto al suicidio sarebbe discriminatoria fra quanti sono mantenuti in vita artificialmente e quanti rifiutano il trattamento, anche ai sensi della legge del 2017. 

Infine, due membri ritengono che, nelle situazioni considerate l’utilizzo del termine suicidio sia improprio, “in quanto non si vuole uccidere sé stessi, ma liberarsi da un corpo che è diventato una prigione”. Questa posizione è concorde nel sottolineare i rischi che comporterebbe una legalizzazione del c.d. suicidio medicalmente assistito nella realtà sanitaria italiana, dove i pazienti non godono di un’adeguata assistenza sanitaria, come sottolineato dal “Rapporto sullo stato di attuazione della legge n. 38 del 15 marzo 2010”, che il Ministero della Salute ha inviato al Parlamento nel gennaio 2019. Il Rapporto sottolinea che la qualità e l’offerta assistenziale per le cure palliative in regime residenziale e domiciliare presenta forti disomogeneità sul territorio nazionale a causa di gravi carenze strutturali. 

Il parere del Comitato si conclude con l’auspicio che il dibattito sul tema si sviluppi con la dovuta attenzione a tutte le problematiche etiche, sociali e giuridiche che esso solleva. Tale speranza è accompagnata da alcune raccomandazioni sull’impegno di fornire cure adeguate ai malati terminali, sui valori professionali e deontologici dei medici e degli altri professionisti sanitari, sulla solidarietà nei confronti delle persone con particolari vulnerabilità, sull’importanza dell’informazione data al paziente, sull’accesso alle cure palliative, sulla necessità di un’ampia partecipazione dei cittadini alla discussione. 

Gianfranco Gabriele Nucera

Assegnista di ricerca in Diritto internazionale

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