Il caso Provenzano contro Italia: una nuova valutazione del 41 bis nella recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
Case of Provenzano v. Italy, Applications n. 55080/13, Judgment
Approfondimento n. 16/2018
Lo scorso 25 Ottobre, la prima sezione della Corte di Strasburgo ha reso la propria sentenza sul caso Provenzano contro Italia, ritornando sull’annoso e discusso tema del regime dell’articolo 41 bis del codice penale italiano, comunemente noto come “carcere duro”.
L’intervento della Corte, inizialmente richiesto da Bernardo Provenzano, al cui decesso è succeduto il figlio Angelo, è relativo alla presunta violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) sul divieto della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti.
Il signor Provenzano, infatti, rivolgendosi alla Corte, ha sostenuto di non aver ricevuto adeguate cure mediche durante la detenzione e di non aver beneficiato di un alleviamento delle misure di cui al regime del 41 bis (una sola ora di visita al mese da parte dei familiari, proibizione dell’uso del telefono, partecipazione alle attività ricreative in gruppi non più grandi di quattro persone, non godimento del diritto di voto alle elezioni dei rappresentanti dei detenuti ecc.), nonostante il grave peggioramento delle sue condizioni di salute a partire dal 2014.
In particolare, l’ultimo rinnovo del regime di prigionia in questione sarebbe stato approvato dal Ministero della giustizia per un periodo di due anni a partire dal 23 Marzo 2016, nonostante le visite mediche cui il signor Provenzano era stato sottoposto avessero messo in luce talune compromissioni di natura cognitiva.
Anche il Tribunale di Palermo ha ritenuto che le attenuazioni, di cui agli articoli 146 e 147 del codice penale italiano, del regime non potessero essere applicate in virtù della pericolosità particolare e concretadel detenuto. Non soltanto, infatti, l’ex leader di Cosa nostra sembrava ancora in grado di ordinare, per il tramite dei suoi congiunti, la realizzazione di atti criminosi, ma l’eventuale alleviamento della pena avrebbe rappresentato un pericolo sociale di non trascurabile rilievo.
Ciononostante, a detta del ricorrente, dalla documentazione medica sottoposta alla Corte si evidenzierebbe una sostanziale incompatibilità tra il regime di detenzione del signor Provenzano e le sue condizioni di salute.
A tal proposito, gli avvocati distinguono due particolari momenti. Il primo, legato alla detenzione a Parma, in cui a partire dal Dicembre del 2012 il signor Provenzano sarebbe stato a tal punto lasciato privo di cure mediche da ritardare un’operazione chirurgica ritenuta di grande urgenza.
Il secondo, a partire dal 2014, avrebbe ad oggetto l’ospedalizzazione in una struttura specializzata di Milano, nel corso della quale le gravi condizioni di salute non sarebbero state tenute in debito conto nell’ottica di mitigare l’applicazione delle misure del carcere duro.
Nonostante la Corte europea dei diritti dell’uomo sottolinei che la semplice somministrazione di una terapia volta al miglioramento delle condizioni di salute del detenuto non sia sinonimo dell’adeguatezza dell’assistenza medica fornita, essa ha sempre lasciato un certo margine di flessibilità agli Stati nella valutazione delle singole situazioni di specie. Nel caso del signor Provenzano, comunque, la Corte conclude che l’assistenza medica prestata sia stata sufficiente.
Più articolata, invece, la valutazione del regime ex 41 bis, cui il ricorrente era sottoposto, alla luce dell’articolo 3. In particolare, la Corte ha ritenuto che il rinnovo delle misure in questione nel 2016 non abbia tenuto in debito conto le degradate condizioni di salute del signor Provenzano. A parere della medesima, infatti, non vi sono sufficienti evidenze che il Ministero della giustizia avesse condotto un’analisi indipendente delle condizioni cognitive del paziente, tali da autorizzare il rinnovo del carcere duro. In tal senso, si sarebbe configurata una violazione dell’articolo 3 CEDU ai danni del signor Provenzano.
A ben vedere, la sentenza in questione, oltre ad avere un rilievo specifico per l’interesse destato dal suo ricorrente, si inserisce nel quadro di una necessaria rilettura del regime del 41 bis che, benché giudicato complessivamente non contrario all’articolo 3 della CEDU, dovrebbe ugualmente essere sottoposto a quelle migliorie volte ad evitare possibili violazioni, quando applicato nei casi di specie.
Giovanni Ardito
Dottorando di ricerca in diritto pubblico, comparato e internazionale