Il caso dei Rohingya davanti alla Corte penale internazionale

Decision on the “Prosecution’s Request for a Ruling on Jurisdiction under Article 19(3) of the Statute”

 Approfondimento n. 12/2018                                                                                                                                                                                                                                                                                     

Giovedì 6 settembre 2018, la Camera preliminare della Corte penale internazionale (CPI) si è pronunciata sulla richiesta presentata dal Procuratore Fatou Bensouda ai sensi dell’art.19(3) relativa all’accertamento della competenza della Corte rispetto ai fatti avvenuti tra il Myanmar e il Bangladesh nel corso del 2017.

A partire dalla questione sottoposta dal Prosecutor, e dopo aver ricevuto le osservazioni del Governo bengalese e delle potenziali vittime, i tre giudici, con l’opinione parzialmente dissidente di Perrin de Brichambaut, hanno riconosciuto il potere della Corte di esercitare la propria giurisdizione sui presunti crimini contro l’umanità – segnatamente, deportazione e persecuzione – cha hanno coinvolto la popolazione musulmana dei Rohingya ed il Governo birmano nell’agosto 2017.

Nonostante, infatti, il crimine contestato si sia verificato sul territorio di uno Stato – il Myanmar – non parte allo Statuto di Roma, la Corte, secondo i giudici Kovács e Alapini-Gansou, risulta comunque legittimata ad esercitare la propria giurisdizione. La ratio alla base di tale decisione risiede nell’esistenza di un elemento del crimine di deportazione – ovvero il superamento di un confine internazionale – che ha coinvolto uno Stato membro della Corte penale internazionale, il Bangladesh.

A sostegno della propria decisione, la Camera preliminare, oltre a richiamare gli artt. 11-15 dello Statuto relativi alle condizioni per l’esercizio della giurisdizione della Corte, ha fatto altresì riferimento a normative adottate a livello nazionale e sovranazionale – tra cui il Codice penale del Bangladesh e del Myanmar – nonché quei trattati internazionali – ratificati anche dalla Birmania – che impongono agli Stati l’adozione di misure tese a garantire l’esercizio della giurisdizione nazionale sui crimini commessi da individui presenti sul territorio dello Stato, indipendentemente dalla nazionalità degli stessi e dal luogo in cui l’illecito si è verificato.

Con riferimento, invece, alCodice penalebirmano, la CPI ha sottolineato come ai sensi dell’art. 3 – Capitolo I, ogni persona perseguibile per crimini commessi all’interno dei confini nazionali, lo è anche per quegli illeciti commessi all’esterno del Paese.

La Corte, soffermandosi infine sull’art. 12(2)(a), ha ricordato come il principio secondo cui la giurisdizione penale può essere esercitata anche se una sola parte del crimine si è verificata sul territorio dello Stato, sia enunciato oggi in molti strumenti giuridici internazionali. A partire da queste considerazioni, e dalla disposizione secondo cui “the Court has jurisdiction over the most serious crimes of concern to the international community as a whole on the basis of approaches to criminal jurisdiction that are firmly anchored in international law and domestic legal systems”, un’interpretazione restrittiva dell’art. 12 che impedisca alla Corte di intervenire nel caso in cui uno o più elementi di uno stesso crimine siano avvenuti all’interno di uno Stato non parte allo Statuto di Roma, priverebbe quest’ultimo del proprio scopo.

Anche la formulazione dell’art. 7(2)(d), che nell’ambito del crimine di deportazione non prevede specifici requisiti circa il luogo di arrivo delle vittime, riflette, secondo i giudici, la volontà degli estensori dello Statuto di autorizzare l’intervento della CPI anche quando un solo elemento dell’illecito in questione ha avuto luogo in uno Stato parte.

Stesse considerazioni sono state applicate dalla Camera preliminare anche al crimine di persecuzione, di cui risultano vittime potenziali i membri della popolazione dei Rohigya deportati dal Myanmar al Bangladesh. Le drammatiche condizioni di vita sofferte da questi ultimi e il divieto di ingresso nel Paese imposto loro dal Governo birmano, hanno rappresentato, infatti, violazioni gravi del diritto internazionale assimilabili al crimine di persecuzione. E quando quest’ultimo è commesso in relazione a un altro delitto rientrante nella giurisdizione della Corte – nel caso di specie la deportazione – valgono, secondo i giudici, le stesse condizioni per l’esercizio della giurisdizione della CPI.

La decisione della Camera, cui ha fatto seguito l’apertura ufficiale di un’indagine preliminare sul caso dei Rohingya (18 settembre 2018), ha provocato la dura reazione del Governo di San Suu Kyi, che ha dimostrato a più riprese il suo deciso rifiuto a collaborare ad un’indagine internazionale sulle violenze di massa commesse contro i Rohingya. Il Myanmar, citando in diverse occasioni l’art. 34 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati come anche il Trattato istitutivo della Corte penale internazionale, ha infatti accusato la CPI di voler estendere illegittimamente l’esercizio della propria giurisdizione, imponendo ad uno Stato terzo allo Statuto di Roma la propria autorità.

Marta Panaiotti

Tutor del Master in Tutela Internazionale dei Diritti Umani 

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