Cambiamenti climatici, migrazioni e diritto alla vita: verso la definizione di uno standard di tutela per i migranti climatici?

Human Rights Committee, Views adopted by the Committee under article 5 (4) of the Optional Protocol, concerning communication No. 2728/2016, 24 October 2019

Approfondimento n. 8/2020                                                                                                                                                                                                                                                                                

Il rapporto tra cambiamenti climatici e migrazioni è sempre più centrale nel dibattito giuridico e nei lavori degli organi internazionali di promozione e tutela dei diritti umani. Di recente, il Comitato sui diritti umani, organo di controllo del Patto internazionale sui diritti civili e politici, si è espresso sulla comunicazione presentata dal sig. Ioane Teitiota, cittadino della Repubblica di Kiribati emigrato in Nuova Zelanda, il quale si è visto rifiutare la sua domanda di protezione internazionale e, in seguito a tale rifiuto, è stato espulso. Tale rimpatrio, avvenuto nel settembre 2015, avrebbe violato il diritto alla vita del ricorrente, come previsto ai sensi dell’art. 6 del Patto. 

Secondo l’autore, gli effetti del cambiamento climatico e dell’innalzamento del livello del mare lo hanno costretto a migrare dall’isola di Tarawa nella Repubblica di Kiribati verso la Nuova Zelanda. La progressiva diminuzione dei terreni coltivabili, infatti, ha provocato una crisi abitativa e violenti scontri nell’area che hanno, a loro volta, causato numerosi morti. Tali mutamenti avrebbero prodotto una situazione insostenibile nell’isola.

Il Tribunale per l’immigrazione, la Corte d’appello e la Corte Suprema neozelandesi non hanno accolto la sua domanda. Nelle rispettive decisioni, gli organi giurisprudenziali hanno rilevato l’effettivo deterioramento delle condizioni di vita materiali nell’isola di Kiribati, a seguito della rapida crescita della popolazione, della diminuzione di acqua potabile e delle terre coltivabili derivante dall’innalzamento del mare. I tribunali hanno riconosciuto che da tale situazione è derivato un peggioramento sostanziale della vita del richiedente e della sua famiglia, che lo ha indotto a migrare verso la Nuova Zelanda e a non voler fare ritorno nell’isola. Tuttavia, nel verificare l’applicabilità dello status di rifugiato alla situazione specifica, i tribunali hanno concluso che il richiedente non si trovava oggettivamente ad affrontare un rischio reale di essere perseguitato, o di subire gravi danni fisici, se rimpatriato. Inoltre, non c’erano prove a sostegno della sua tesi secondo cui il degrado ambientale gli avrebbe impedito di coltivare la terra o accedere a risorse d’acqua potabile. 

Inoltre, la legge neozelandese prevede la possibilità di rilasciare una ulteriore forma di protezione per le persone che rischiano di subire una privazione arbitraria della vita e/o tortura, trattamenti inumani e degradanti, ai sensi del Patto internazionale sui diritti civili e politici, in caso di rimpatrio. Il parametro utilizzato dai tribunali neozelandesi per valutare il rilascio di tale forma di protezione è la prassi del Comitato sui diritti umani e l’interpretazione dell’art. 6 fornita dal General Comment n. 6 (1982). Richiamando tale prassi, i giudici hanno precisato che una privazione arbitraria della vita si verifica nelle circostanze in cui: (a) viene violato il principio di legalità; (b) la misura non è proporzionale alle finalità perseguite; (c) l’azione non è necessaria nelle particolari circostanze del caso. Di contro, lo Stato ha l’obbligo positivo di adottare tutte le misure necessarie per garantire l’effettivo godimento di questo diritto. Inoltre, ai fini dell’accertamento di una violazione del Patto, il rischio deve essere “imminente”. Ciò significa che il rischio per la vita deve essere, almeno, probabile che si verifichi (Aalbersberg et al. v. Paesi Bassi).

Nel caso di specie, benché il rischio per il ricorrente e per la sua famiglia a causa dell’innalzamento del livello del mare e di altre calamità naturali potrebbe, in senso lato, essere considerato imminente, tuttavia, tale rischio, secondo i tribunali neozelandesi, era ancora ben al di sotto della soglia richiesta per essere definito “fondato”. In ogni caso, è importante rilevare che, nonostante il respingimento della domanda di protezione, la Corte suprema apre alla possibilità che il degrado ambientale derivante dai cambiamenti climatici o da altre catastrofi naturali possa “create a pathway into the Refugee Convention or other protected person jurisdiction”.

A seguito di tali pronunce, il sig. Teitiota ha presentato una comunicazione al Comitato sostenendo che il rimpatrio operato a seguito della sentenza della Corte Suprema costituisca una violazione del diritto alla vita in ragione: (a) della scarsità di spazio abitabile, che ha causato, a sua volta, un pericolo per la vita della persona in relazione ai violenti scontri sorti per l’accaparramento delle terre; (b) del degrado ambientale, compresa la progressiva salinizzazione dell’acqua potabile.

Sulla ricevibilità della comunicazione, il Comitato si è espresso in senso favorevole. Citando la sua prassi, in particolare la decisione nel caso Beydon et al. v. Francia, il Comitato ha ricordato che, affinché una persona possa dichiarare di essere vittima di una violazione del Patto, deve dimostrare che un atto o l’omissione di uno Stato parte ha influenzato negativamente l’esercizio del diritto in questione, o che tale effetto sia imminente. Il Comitato ritiene che l’autore abbia sufficientemente dimostrato, ai fini della ricevibilità, che a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici e del conseguente innalzamento del livello del mare sull’abitabilità del Repubblica di Kiribati e sulla situazione della sicurezza nelle isole, ha dovuto affrontare, a seguito della decisione dello Stato parte di rimpatriarlo, un reale rischio di compromissione del suo diritto alla vita. 

Il Comitato ha richiamato il par. 12 del General Comment n. 31 (2004) sulla natura dell’obbligo per gli Stati parti di non respingere, estradare o espellere una persona dal proprio territorio quando vi siano fondati motivi per ritenere che vi sia un rischio reale di danno irreparabile come quello contemplato dagli articoli 6 e 7 del Patto. Tale rischio deve essere personale, non può derivare semplicemente dalle condizioni generali nello Stato di residenza, tranne nei casi più estremi. Il Comitato ricorda che spetta in genere agli organi degli Stati parti esaminare i fatti e le prove del caso al fine di determinare l’esistenza di tale rischio, a meno che tale valutazione sia manifestamente arbitraria, errata o costituisca un diniego di giustizia.

Citando il General Comment n. 36 (2018), il Comitato ha inoltre ricordato che il diritto alla vita include anche il diritto della persona di godere di una vita dignitosa e di essere libera da atti o omissioni che causerebbero la loro morte prematura. L’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a garantire tale diritto trova applicazione nei casi in cui vi siano minacce ragionevolmente prevedibili e situazioni potenzialmente letali che possono comportare la perdita della vita. Il degrado ambientale, i cambiamenti climatici e lo sviluppo insostenibile, secondo il Comitato, costituiscono alcune delle minacce più urgenti e gravi alla capacità delle generazioni presenti e future di godere del diritto alla vita.

Nel caso di specie, il Comitato ha confermato lo scenario descritto dall’autore della comunicazione, secondo cui l’innalzamento del livello del mare rischia di rendere la Repubblica di Kiribati inabitabile. Tuttavia, rileva che i tempi di 10-15 anni (indicati come punto temporale in cui la situazione dello Stato potrebbe diventare irrimediabile) potrebbero consentire l’intervento del governo di Kiribati, con l’assistenza della comunità internazionale, per adottare le indispensabili misure per proteggere e, se necessario, ricollocare la sua popolazione. 

Alla luce di tali considerazioni, il Comitato ritiene che i tribunali statali abbiano fornito all’autore una valutazione individualizzata della sua necessità di protezione e che questi, in base alle informazioni fornite dal ricorrente, abbiano esaminato tutti gli elementi utili a valutare il rischio che ha dovuto affrontare quando questi è stato rimpatriato nel 2015. Pertanto, non contestando la valutazione di merito efffettuata dai tribunali interni, il Comitato si è pronunciato nel senso di non rilevare violazioni dell’art. 6 del Patto.

La decisione del Comitato appare criticabile sotto alcuni profili e non sono mancate voci discordanti anche all’interno dell’organo stesso. Nelle rispettive opinioni dissenzienti, due membri del Comitato (V. Sancin e D. M. Laki) hanno rilevato come, a loro avviso, lo Stato non abbia presentato prove di una corretta valutazione sulla possibilità dell’autore e dei suoi familiari di approvvigionarsi di acqua potabile a Kiribati. 

In relazione a tale aspetto, il Comitato, pur riconoscendo le difficoltà che possono essere causate dal razionamento dell’acqua, ha concluso che l’autore non ha fornito informazioni sufficienti che indichino che l’approvvigionamento di acqua dolce è insufficiente al punto da produrre un una minaccia ragionevolmente prevedibile di un rischio per la salute che comprometterebbe il suo diritto ad una vita dignitosa o ne causi la morte prematura. 

Secondo i due membri, in tale situazione, dovrebbe essere lo Stato a dimostrare che l’autore e la sua famiglia abbiano effettivamente accesso all’acqua potabile, proprio in ragione dell’obbligo positivo dello Stato di proteggere la vita. È stato dunque imposto all’autore un irragionevole onere della prova. Le condizioni di vita descritte dall’autore, causate dal cambiamento climatico nella Repubblica di Kiribati, sono già significativamente gravi e rappresentano un rischio reale, personale e ragionevolmente prevedibile di una minaccia alla sua vita ai sensi dell’art. 6 del Patto. La notevole difficoltà di accesso all’acqua dolce e/o potabile dovrebbe costituire una ragione sufficiente per raggiungere la soglia di rischio, senza che si arrivi ad una completa mancanza di acqua dolce. A tale situazione, si aggiungono i gravi problemi di salute dei familiari, e le notevoli difficoltà nell’intraprendere attività agricole. 

Secondo i due membri del Comitato, sebbene sia lodevole che Kiribati abbia posto in essere misure di adattamento per ridurre le vulnerabilità e affrontare gli effetti negativi del cambiamento climatico, è evidente che la situazione della vita continui ad essere incompatibile con gli standard di dignità umana. 

Gianfranco Gabriele Nucera

Assegnista di ricerca in Diritto internazionale

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