24 dicembre 2025 – La Corte di giustizia dell’Unione europea si pronuncia sul concetto di paese di origine sicuro

di Lucia Grimandi

Approfondimento n. 1/2025

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con sentenza depositata il 1° agosto 2025, si è espressa sull’interpretazione e l’applicazione del concetto di Paese di origine sicuro, a seguito di due domande di pronuncia pregiudiziale sollevate con ordinanze del 31 ottobre e del 4 novembre 2024 dal Tribunale Ordinario di Roma.

La qualificazione di un Paese di origine di un migrante come sicuro è un elemento determinante nella gestione delle domande di protezione internazionale poiché ne consente l’esame mediante una procedura accelerata, da potersi svolgere altresì nei luoghi di frontiera. Inoltre, a seguito della ratifica, avvenuta con Legge n. 14 del 21 febbraio 2024, del Protocollo per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria stipulato tra il Governo della Repubblica italiana e il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania, ai fini dello svolgimento delle procedure accelerate di frontiera o di rimpatrio, il governo albanese ha messo a disposizione della Repubblica italiana due aree del proprio territorio, sottoposte esclusivamente alla giurisdizione italiana ed equiparate alle “zone di frontiera o di transito”.
Con il decreto-legge n. 158 del 2024, il Governo italiano ha aggiornato l’articolo 2 bis del decreto legislativo n. 25/2008, introducendo una nuova lista di Paesi considerati sicuri ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale.

È all’interno di questo contesto politico – giuridico che si collocano le due domande di pronuncia pregiudiziale, aventi ad oggetto l’interpretazione degli articoli da 36 a 38 della direttiva 2013/32/UE, relativi al concetto di Paese di origine sicuro, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo il quale è garantito a ogni persona il diritto a un ricorso effettivo in caso di violazione di diritti fondamentali, tra cui il diritto all’asilo, nonché alla luce degli articoli 6 (diritto a un equo processo) e 13 (diritto a un ricorso effettivo) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

In particolare, la vicenda trae origine dal caso di due cittadini della Repubblica Popolare del Bangladesh detenuti, in forza del Protocollo tra Italia e Albania, presso il centro di Gjadèr in Albania e che, a seguito dello svolgimento di una procedura accelerata di frontiera, si erano visti rigettare la domanda di protezione internazionale sul presupposto che il Paese di loro provenienza fosse da considerarsi sicuro, in quanto tra quelli previsti all’articolo 2 bis, comma 1, del decreto-legge 158/2024.

Il Tribunale di Roma, interessato del ricorso avverso la decisione di diniego della Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Roma, sospendeva il procedimento, proponendo il rinvio ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia UE di quattro quesiti, riguardanti la nozione di Paese di origine sicuro e l’effettiva possibilità di esercitare un controllo giurisdizionale sulla designazione di Paese sicuro.

La sentenza della Corte di Giustizia europea, richiamandosi alla propria consolidata giurisprudenza relativa alla procedura speciale prevista dalla Direttiva 2013/32, enuncia alcuni principi fondamentali volti a risolvere i profondi contrasti emersi all’interno dell’ordinamento italiano in merito all’ interpretazione dell’istituto di Paese sicuro, soprattutto con riferimento all’applicabilità del Protocollo Italia – Albania.

In primo luogo, confermando la discrezionalità statale nella scelta della modalità e degli strumenti normativi volti a garantire l’attuazione della direttiva sopra citata, la Corte riconosce il diritto di ciascuno Stato membro di designare uno Stato terzo come Paese di origine sicuro, anche mediante un atto legislativo. È tuttavia necessario, ai sensi dell’articolo 46 della Direttiva 2013/32, che tale designazione possa essere soggetta a un controllo giurisdizionale effettivo, volto a verificare per ogni singolo caso il rispetto sostanziale delle condizioni descritte nell’ articolo 37 e nell’ allegato I della medesima direttiva, che sono disposizioni dotate di effetto diretto.
Resta valido, infatti, il principio del primato del diritto comunitario, che impone al giudice nazionale di disapplicare qualsiasi disposizione interna, anche successiva, contraria al diritto dell’Unione.

In secondo luogo, al fine di garantire l’effettivo diritto di difesa dei richiedenti protezione internazionale, conformemente all’articolo 46, paragrafo 3, della Direttiva 2013/32, la Corte sancisce l’obbligo per gli Stati di assicurare al richiedente e al giudice un accesso adeguato alle fonti di informazione utilizzate per individuare i Paesi di origine sicura, indicando in maniera chiara e precisa quali siano i documenti o gli atti alla base di tale designazione.

È fondamentale, quindi, che tanto il giudice adito quanto il richiedente abbiano la concreta possibilità di verificare quali siano gli elementi su cui si basa la presunzione di sicurezza del Paese di provenienza di quest’ultimo. Soltanto in questo modo, la persona potrà scegliere consapevolmente se impugnare o meno innanzi al Tribunale ordinario il rigetto della domanda internazionale e secondo quali argomenti contestare le condizioni di sicurezza attribuite al Paese di cui è cittadino.
La centralità attribuita al diritto di difesa è ulteriormente valorizzata riconoscendo al giudice la facoltà di acquisire d’ufficio informazioni sul Paese di origine del richiedente. Ciò permette di verificare in concreto le effettive e sostanziali condizioni di sicurezza del Paese stesso e valutare così l’eventuale sussistenza o meno del rischio di persecuzione, tortura, trattamenti inumani o degradanti, anche al di là della designazione legislativa. Il giudice dovrà basarsi su fonti di informazione qualificate e affidabili e rispettare il principio del contraddittorio tra le parti.
Infine, la Corte stabilisce che l’articolo 37 della Direttiva 2013/32, letto in combinato disposto con l’allegato I, impedisce a uno Stato membro di designare come Paese di origine sicuro un Paese che non soddisfi le condizioni per alcune categorie di persone. Dalla lettura testuale dell’articolo 37, infatti, emerge la volontà del legislatore comunitario di riferirsi al “Paese” nella sua interezza, senza eccezioni di alcun tipo. La Corte sottolinea che i termini scelti dal legislatore (in italiano: generalmente e costantemente) “rinviano tutti ad una nozione di invariabilità” delle condizioni di assenza di persecuzioni, tortura o trattamento disumano o degradante, o di violenza indiscriminata in conseguenza di un conflitto interno o internazionale. Pertanto, quell’invariabilità esprime che la sicurezza di un Paese deve valere per l’intera sua popolazione, e non essere limitata soltanto a una parte.
Tale interpretazione è coerente con quanto affermato in una precedente sentenza della Corte di giustizia (C-406/22 del 4 ottobre 2024), che esclude la possibilità di qualificare come sicuro uno Stato, al cui interno vi siano porzioni di territorio non sicure.
Pertanto, un Paese non può essere considerato “sicuro” se al suo interno esistono alcuni gruppi specifici di persone oggetto di persecuzione, bensì è necessario che vi siano condizioni di sicurezza e di stabilità per tutta la popolazione.
Una conclusione diversa comporterebbe, infatti, l’estensione della procedura accelerata, prevista in deroga al regime ordinario, a una più ampia categoria di richiedenti asilo, in contrasto con il principio cardine del diritto secondo cui le norme derogatorie devono essere interpretate e applicate in modo restrittivo.

La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea offre quindi un chiarimento fondamentale in ordine all’interpretazione del concetto di Paese sicuro, riaffermando principi centrali del diritto comunitario e precisando i limiti entro i quali gli Stati membri possono esercitare la propria discrezionalità in materia. La qualificazione di uno Stato come Paese di origine sicuro non può, infatti, tradursi in valutazione meramente politica, essendo disciplinata da criteri normati a livello comunitario che limitano la discrezionalità dello Stato membro nella designazione dello stesso. Ciò alla luce del fatto che tale qualificazione comporta una significativa compressione del diritto di asilo e delle garanzie procedurali connesse. Gli Stati membri non possono introdurre normative nazionali che amplino in modo arbitrario la portata delle deroghe stabilite dal legislatore europeo.
Sarà interessante capire se, e in che misura, questi principi continueranno a trovare applicazione anche dopo l’entrata in vigore del nuovo Regolamento Procedure 2024/1348, prevista per giugno 2026; le nuove norme, infatti, introducono esplicitamente la possibilità di designare Paesi di origine sicuri prevedendo eccezioni sia territoriali che di natura personale, con riferimento a gruppi di soggetti che presentano specifiche caratteristiche.
Tuttavia, è necessario che tali eccezioni rimangano pur sempre compatibili con la designazione del Paese interessato come sicuro. Ciò implica che lo Stato di origine deve essere caratterizzato da un regime democratico nel quale la popolazione possa fare affidamento, in generale, su di una protezione duratura contro il rischio di persecuzioni o violazioni gravi. Affinché l’eccezione sia coerente con l’affermazione di una situazione generalmente sicura, essa deve riguardare un numero molto ristretto di persone. Qualora, invece, le categorie sottratte alla presunzione di sicurezza risultassero numerose o non immediatamente identificabili, la stessa qualificazione del Paese come sicuro sarebbe solo ipotetica e in violazione del principio di proporzionalità.
In ogni caso, permane fermo il principio relativo alla centralità della funzione giurisdizionale e alla necessità di garantire l’effettività del diritto di difesa nell’ambito di tutte le procedure concernenti la protezione internazionale. Anche dopo l’entrata in vigore del nuovo Regolamento Procedure, il ruolo del giudice continuerà dunque a essere determinante nel garantire che la qualificazione di Paese di origine sicuro non si traduca in un’indebita compromissione dei diritti fondamentali dei richiedenti protezione internazionale. L’autorità giudiziaria nazionale sarà tenuta a svolgere un esame approfondito delle fonti che lo Stato utilizza per designare un Paese come sicuro; tale valutazione dovrà avvenire nel rispetto del contraddittorio tra le parti, con esclusione di ogni automatismo, e tenendo conto, caso per caso, dei bisogni specifici di protezione del richiedente asilo.

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